Luppoli e birra. In Italia, finalmente, sono oltre cento tipi
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Li stanno studiando anche le università e c’è un progetto in corso per la loro valorizzazione. Parliamo dei luppoli, un tempo appannaggio solo di alcuni Paesi e oggi protagonisti anche da noi. Un altro modo per esaltare la biodiversità, anche nella birra
Nelle birre artigianali, i luppoli sono uno dei punti caratteristici rispetto all’appiattimento dei sapori delle birre di massa. Il luppolo, oltre a essere uno dei quattro ingredienti base di una birra, con acqua, malto d’orzo e lievito, è responsabile del gusto amaro e di tantissimi profumi e aromi: fruttato, terroso, pepato, agrumato, floreale, erbaceo, resinoso.La reneissance americana delle craft breweries , cominciata negli anni Settanta, è proprio legata al grande lavoro fatto nei campi di luppoli, con nuove selezioni, cultivar, sapori e aromi, quindi nuove birre.
Un tempo, i luppoli utilizzati per le birre arrivavano dai paesi di grande tradizione brassicola, come la Germania, tuttora il più importante coltivatore al mondo, la Gran Bretagna, il Belgio, la Repubblica Ceca e anche la Slovenia. Stati Uniti, Nuova Zelanda e Australia sono entrati di prepotenza in questo mercato. Oggi i luppoli arrivano anche dal Giappone, dalla Polonia e da molti altri Paesi. Tranne l’Italia.
Vero che l’Italia ha sempre saputo, grazie alla creatività, saputo ovviare a tragiche mancanze di materie prime ma, con quasi mille microbirrifici sul mercato e una grande tendenza verso le birre ben caratterizzate proprio dai luppoli, sembra una pecca molto grave. Alcuni birrifici hanno fatto, e stanno facendo, piccoli esperimenti in proprio piantandosi qualche pianta e usandola in birre speciali create apposta con il luppolo fresco, appena raccolto, ma senza reali studi scientifici. Il birrificio Baladin ha dei campi sperimentali di luppolo a Fossano, nel cuneese; l’Università di Udine, sotto la guida del professor Buiatti, studia la birra a 360 gradi, quindi anche i luppoli. Insomma pareva il momento ideale per lanciare una massiccia campagna per il luppolo italiano quando, nel 2010, col decreto 212, il Governo introdusse il concetto di birra agricola. Ma la miopia della nostra classe politica ha fissato in un generico 51 per cento degli ingredienti secchi (ovvero esclusa l’acqua) autoprodotti come condizione necessaria e sufficiente per poter rientrare nei parametri di legge. Oltretutto, i contadini si coltivano l’orzo, ma poi hanno la necessità di farlo maltare, procedura complessa e fatta normalmente all’esterno (a molti chilometri) dell’azienda agricola se non addirittura all’estero. Il luppolo si può essiccare o trattare in altri modi, affinché si possa conservare per una stagione intera, ma può anche essere usato fresco, come nella tradizione delle Wet o Harvest Beers americane (le birre umide o del raccolto, quando il fiore è utilizzato entro poche ore dal raccolto).
Occasione persa e nulla di fatto? Fortunatamente no. Grazie all’iniziativa di un giovane universitario, appassionato di birra, Eugenio Pellicciari, che ha saputo coinvolgere l’Università di Parma è nato un progetto a Marano sul Panaro. Il posto è stato scelto perché lì, sulle rive del fiume Panaro, nel 1876 i Montecuccoli fecero iniziare una coltivazione di luppoli. Il progetto, guidato da Tommaso Ganino, prevede non solo lo studio di luppoli alloctoni (le piante commerciali provenienti dall’estero), ma anche e soprattutto delle piante autoctone e anche le prime prove di incrocio tra le nostre piante e quelle già conosciute.
Intanto il dato che mi conforta riguarda gli oltre 100 tipi di luppoli italiani individuati: come sempre l’Italia, quando si tratta di biodiversità, non è seconda a nessuno! Questo vuol dire che abbiamo infinite possibilità d’incrocio, così da avere, in un futuro non tanto lontano, svariate piante in grado di crescere in differenti tipi di ambiente.
Il luppolo nostrano più promettente, al momento, è chiamato ET8, ma i nomi dati agli altri luppoli sono meravigliosamente nostrani, come la pianta stessa: Gianni, Rio Gambero, Cinghio, Tavernelle e altri ancora. Ognuno ha delle caratteristiche proprie che possono donare nuovi spunti alle birre. L’ET8, da aroma, con note speziate è intrigante e complesso, pur se ancora un po’ grezzo, e lo posso dire perché Agostino Arioli – del Birrificio Italiano, uno che di luppoli se intende eccome – ha usato la ricetta della sua Tipo Pils per provarlo e farcelo assaggiare. Gianni pare avere un aroma complesso, Tavernelle, che è proprio di Marano, ricorda uno splendido luppolo inglese, il Fuggle, con le sue note pepate e terrose, ma molto più elegante, Rio Gambero pare essere un buon luppolo da aroma, ma con un’ottima propensione per l’amaro.
Si è ancora in fase sperimentale, le specie incrociate devono ancora mostrare le loro potenzialità, in generale occorre capire la stabilità delle piante, ma il fatto che un’università stia seguendo il progetto, facendo continui controlli e analisi scientifiche e che i birrai siano curiosi e partecipino ai convegni di presentazione, che altre università, come quella di Udine, il CERB di Perugia e l’Università di Firenze in qualche modo collaborino, è garanzia del fatto che in capo a pochi anni si arriverà a un risultato.
E il risultato sarà, come ho sottolineato nel mio intervento al convegno tenutosi il 18 luglio proprio a Marano, un passo avanti fondamentale per tutto il comparto delle birre artigianali italiane; finalmente avremo un ingrediente distintivo e canonico e mi aspetto curiosità verso i luppoli italici anche da parte dei birrifici all’estero.
di Andrea Camaschella
Nelle birre artigianali, i luppoli sono uno dei punti caratteristici rispetto all’appiattimento dei sapori delle birre di massa. Il luppolo, oltre a essere uno dei quattro ingredienti base di una birra, con acqua, malto d’orzo e lievito, è responsabile del gusto amaro e di tantissimi profumi e aromi: fruttato, terroso, pepato, agrumato, floreale, erbaceo, resinoso.La reneissance americana delle craft breweries , cominciata negli anni Settanta, è proprio legata al grande lavoro fatto nei campi di luppoli, con nuove selezioni, cultivar, sapori e aromi, quindi nuove birre.
Un tempo, i luppoli utilizzati per le birre arrivavano dai paesi di grande tradizione brassicola, come la Germania, tuttora il più importante coltivatore al mondo, la Gran Bretagna, il Belgio, la Repubblica Ceca e anche la Slovenia. Stati Uniti, Nuova Zelanda e Australia sono entrati di prepotenza in questo mercato. Oggi i luppoli arrivano anche dal Giappone, dalla Polonia e da molti altri Paesi. Tranne l’Italia.
Vero che l’Italia ha sempre saputo, grazie alla creatività, saputo ovviare a tragiche mancanze di materie prime ma, con quasi mille microbirrifici sul mercato e una grande tendenza verso le birre ben caratterizzate proprio dai luppoli, sembra una pecca molto grave. Alcuni birrifici hanno fatto, e stanno facendo, piccoli esperimenti in proprio piantandosi qualche pianta e usandola in birre speciali create apposta con il luppolo fresco, appena raccolto, ma senza reali studi scientifici. Il birrificio Baladin ha dei campi sperimentali di luppolo a Fossano, nel cuneese; l’Università di Udine, sotto la guida del professor Buiatti, studia la birra a 360 gradi, quindi anche i luppoli. Insomma pareva il momento ideale per lanciare una massiccia campagna per il luppolo italiano quando, nel 2010, col decreto 212, il Governo introdusse il concetto di birra agricola. Ma la miopia della nostra classe politica ha fissato in un generico 51 per cento degli ingredienti secchi (ovvero esclusa l’acqua) autoprodotti come condizione necessaria e sufficiente per poter rientrare nei parametri di legge. Oltretutto, i contadini si coltivano l’orzo, ma poi hanno la necessità di farlo maltare, procedura complessa e fatta normalmente all’esterno (a molti chilometri) dell’azienda agricola se non addirittura all’estero. Il luppolo si può essiccare o trattare in altri modi, affinché si possa conservare per una stagione intera, ma può anche essere usato fresco, come nella tradizione delle Wet o Harvest Beers americane (le birre umide o del raccolto, quando il fiore è utilizzato entro poche ore dal raccolto).
Occasione persa e nulla di fatto? Fortunatamente no. Grazie all’iniziativa di un giovane universitario, appassionato di birra, Eugenio Pellicciari, che ha saputo coinvolgere l’Università di Parma è nato un progetto a Marano sul Panaro. Il posto è stato scelto perché lì, sulle rive del fiume Panaro, nel 1876 i Montecuccoli fecero iniziare una coltivazione di luppoli. Il progetto, guidato da Tommaso Ganino, prevede non solo lo studio di luppoli alloctoni (le piante commerciali provenienti dall’estero), ma anche e soprattutto delle piante autoctone e anche le prime prove di incrocio tra le nostre piante e quelle già conosciute.
Intanto il dato che mi conforta riguarda gli oltre 100 tipi di luppoli italiani individuati: come sempre l’Italia, quando si tratta di biodiversità, non è seconda a nessuno! Questo vuol dire che abbiamo infinite possibilità d’incrocio, così da avere, in un futuro non tanto lontano, svariate piante in grado di crescere in differenti tipi di ambiente.
Il luppolo nostrano più promettente, al momento, è chiamato ET8, ma i nomi dati agli altri luppoli sono meravigliosamente nostrani, come la pianta stessa: Gianni, Rio Gambero, Cinghio, Tavernelle e altri ancora. Ognuno ha delle caratteristiche proprie che possono donare nuovi spunti alle birre. L’ET8, da aroma, con note speziate è intrigante e complesso, pur se ancora un po’ grezzo, e lo posso dire perché Agostino Arioli – del Birrificio Italiano, uno che di luppoli se intende eccome – ha usato la ricetta della sua Tipo Pils per provarlo e farcelo assaggiare. Gianni pare avere un aroma complesso, Tavernelle, che è proprio di Marano, ricorda uno splendido luppolo inglese, il Fuggle, con le sue note pepate e terrose, ma molto più elegante, Rio Gambero pare essere un buon luppolo da aroma, ma con un’ottima propensione per l’amaro.
Si è ancora in fase sperimentale, le specie incrociate devono ancora mostrare le loro potenzialità, in generale occorre capire la stabilità delle piante, ma il fatto che un’università stia seguendo il progetto, facendo continui controlli e analisi scientifiche e che i birrai siano curiosi e partecipino ai convegni di presentazione, che altre università, come quella di Udine, il CERB di Perugia e l’Università di Firenze in qualche modo collaborino, è garanzia del fatto che in capo a pochi anni si arriverà a un risultato.
E il risultato sarà, come ho sottolineato nel mio intervento al convegno tenutosi il 18 luglio proprio a Marano, un passo avanti fondamentale per tutto il comparto delle birre artigianali italiane; finalmente avremo un ingrediente distintivo e canonico e mi aspetto curiosità verso i luppoli italici anche da parte dei birrifici all’estero.
di Andrea Camaschella